La vicenda processuale prende avvio dall’impugnativa avanti la Suprema Corte di una decisione della Corte d’Appello di Firenze. Il titolare di un marchio notorio aveva convenuto in giudizio un soggetto utilizzatore di marchi a suo giudizio confondibili con il proprio, chiedendo riconoscersi la contraffazione.
Il Tribunale e la Corte d ‘Appello di Firenze avevano comparato i due marchi e parzialmente escluso, per uno dei marchi contestati, la contraffazione. Secondo, in particolare, la Corte d’Appello l’esame dei segni doveva essere eseguito in modo obiettivo, considerando gli stessi nella loro unitarietà; inoltre, l’elevata rinomanza di un marchio non solo non inciderebbe nella valutazione in ordine alla sussistenza del rischio confusorio, ma costituirebbe, anzi, un ulteriore argomento a sostegno della sua insussistenza, in quanto proprio la notorietà del marchio ed il suo essere impresso nella mente dei consumatori escluderebbero la possibilità di errore, non potendosi ritenere che il potere di attrattiva del marchio anteriore rinomato possa essere compromesso da un segno successivo (del contraffattore) non idoneo ad ingannare la clientela cui si rivolge.
La Suprema Corte stigmatizza questa visione, considerando che, nell’analizzare, ai fini della valutazione di contraffazione, esclusivamente il criterio del rischio di confusione tra i segni in conflitto, esclude la tutela rafforzata che la legge italiana – in attuazione della direttiva CE 89/104 – riconosce ai marchi di rinomanza.
Per tali tipologia di marchi si può del tutto prescindere dall’accertamento di un eventuale rischio di confusione tra segni (sul punto, vedi Cass. n. 26000/2018; Corte di Giustizia 18/6/2009, L’Oréal e a., nella causa C-487/07). Infatti, se da un lato, occorre un certo grediente di somiglianza tra il marchio e il segno contestato, a causa del quale il pubblico interessato mette in relazione il segno posteriore e il marchio notorio, dall’altro, non è richiesto che il grado di somiglianza tra il marchio notorio e il segno utilizzato dal terzo sia tale da ingenerare, nel pubblico interessato, un rischio di confusione. È, infatti, sufficiente che il grado di somiglianza tra il marchio notorio e il segno abbia come effetto che il pubblico interessato stabilisca un nesso tra il segno e il marchio.
Il vulnus al carattere distintivo del marchio che gode di manifesta notorietà, è da considerarsi una sua diluizione, che si manifesta attraverso la sua indebolita idoneità ad identificare i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, per il fatto che l’uso del segno identico o simile fa disperdere l’identità del marchio e della corrispondente presa nella mente del pubblico.
Accanto alla diluizione del carattere distintivo, vi è la corrosione della notorietà del marchio, in quanto il potere di attrazione del marchio risulta compromessa; la clientela, in presenza di prodotti a marchio confondibile, spesso di minor valore, può essere tentata di orientarsi verso altri marchi esclusivi che stanno mantenendo il loro valore attrattivo.
Guardando poi al lato del contraffattore, non vi è dubbio sul vantaggio indebitamente tratto da questi grazie alla notorietà del marchio copiato, un comportamento detto parassitismo. Grazie ad un trasferimento dell’immagine del marchio originale o delle caratteristiche dello stesso sui prodotti contraddistinti dal segno identico o simile, sussiste uno sfruttamento parassitario che il contraffattore opera ai danni del marchio che gode di notorietà, e cio’ senza che il titolare del marchio contraffattorio abbia dovuto operare sforzi propri in proposito e senza qualsivoglia remunerazione economica capace di compensare lo sforzo commerciale effettuato dal titolare del marchio per crearlo e mantenerne l’immagine.
La Corte d’Appello ha dunque errato nel considerare solo il rischio confusorio tra i marchi oggetto di decisione, senza esaminare gli aspetti, propri dei casi in cui il marchio contraffatto (o presunto tale) ha carattere notorio, appena illustrati. Cassata la sentenza, la Corte d’Appello dovrà nuovamente pronunciarsi.
La decisione della Suprema Corte appare rilevante per l’interessante esame dei diversi concetti di diluizione e corrosione e per il richiamo al concetto di parassitismo, che opera inquadrando specificamente la fattispecie del marchio notorio.