Il marchio, si sa, è un biglietto da visita per l’azienda e i suoi prodotti. Il marchio dovrebbe essere capace di creare, nella mente del consumatore, quel legame unico tra segno distintivo, produttore e prodotto; dovrebbe, cioè, essere capace, una volta pronunciato, di evocare l’immagine (per così dire) di un prodotto e di quello soltanto.
La dottrina e la giurisprudenza, nel tempo, hanno segnato la distinzione tra marchio forte e marchio debole: in linea generale, tanto più un marchio è descrittivo del prodotto che è destinato a contraddistinguere, tanto piu’ esso è debole; tanto più il marchio si svincola dall’aspetto descrittivo del prodotto, tanto più esso è forte.
Tuttavia, accade anche che un marchio, in origine debole, possa divenire nel prosieguo forte. La conseguenza più immediata di questa “acquisizione di forza” ce la spiega l’articolo 13 del codice della proprietà industriale:
“1. Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare: a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio; b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio.
2. In deroga al comma 1 possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni che, prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo ….(omissis)”
In altre parole quei segni che, successivamente e grazie al loro uso, abbiano acquisito il carattere di distintività necessario per la loro validità (e la registrabilità) non possono essere dichiarati nulli.
E’ dunque spontaneo chiedersi quale processo porti un marchio ab origine non distintivo a trasformarsi in un marchio dotato di questa capacità, un marchio potenzialmente nullo in un marchio valido, un marchio debole in un marchio forte. Ebbene, il cosiddetto secondary meaning, un istituto di origine anglosassone, introdotto nella legge italiana sui brevetti per marchi (Regio decreto n. 929 del 1942) nel 1992 con l’articolo 47bis. Successivamente, con l’introduzione nel nostro sistema del codice della proprietà industriale (anno 2002), il principio è stato cristallizzato nell’art. 13, oggi richiamato.
D’altronde già da molti anni prima della introduzione del concetto di secondary meaning nella disposizione legislativa, la dottrina e la giurisprudenza lo avevano fatto loro e avevano sviscerato, sotto molteplici profili, questo processo. In molte delle pronunce, di merito e di legittimità, i giudicanti avevano avuto modo di chiarire sempre meglio questo processo, i suoi confini e gli elementi necessari per la sua concretizzazione.
Per limitarci solo alla giurisprudenza piu’ recente, desideriamo qui richiamare la celebre sentenza “Divani&Divani” del febbraio 2015 pronunciata dalla Cassazione in riforma di una sentenza della Corte di Appello di Bari, con cui si qualificò il secondary meaning come il fenomeno elaborato ai fini della c.d. riabilitazione o convalidazione del segno originariamente privo di capacità distintiva, giacché mancante di originalità ovvero generico o descrittivo e che, tuttavia, finisce con il riceverla dall’uso che ne viene fatto nel mercato; un principio, sancì la Suprema Corte, utilizzato per cogliere ogni evoluzione della capacità distintiva, anche come rafforzamento della stessa in un marchio in origine debole che divenga successivamente forte attraverso la diffusione, la propaganda e la pubblicità.
D’altra parte, solo l’anno prima il Tribunale di Bologna, con ordinanza in sede di reclamo del 26 settembre 2014, aveva indicato il secondary meaning come il mutamento di significato, da generico a specifico, nella percezione del pubblico, o riabilitazione del marchio, che consente, nel tempo, ad un marchio nullo, in quanto generico e privo di capacità distintiva, di divenire valido e ad un marchio debole, dotato di scarsa capacità distintiva, di divenire forte, tramite l’intenso uso, l’accreditamento e la notorietà conseguiti per effetto della propaganda e della notorietà.
Al tempo stesso, aveva indicato come la prova della penetrazione del marchio presso il pubblico debba essere fornita da chi, appellandosi al principio del secondary meaning, lo voglia far valere per dimostrare il carattere distintivo del proprio segno, la sua validità o forza. Tale prova non può essere fornita, tuttavia, solo attraverso la dimostrazione della costanza e consistenza degli investimenti sul marchio, ma occorre provare che gli investimenti hanno sortito, presso il pubblico, il risultato sperato e portato ad una effettiva conoscenza/riconoscimento del marchio nel mercato. Difficilmente questa penetrazione puo’ aver luogo in un tempo ristretto: un uso poco prolungato raramente puo’ dare seguito ad effettivi posizionamenti commerciali.
In questo quadro la Suprema Corte, nel noto caso “Rotoloni Regina” (Cass. I civile sentenza n. 7738 del 19 aprile 2016) aveva altresì chiarito che, stante l’incombere sul titolare del marchio in favore del quale si evoca il principio del secondary meaning della prova conseguente, a questo ultimo deve essere fornita la possibilità di avvalersi di strumenti come indagini demoscopiche, sondaggi commerciali etc., che possono, per loro natura, fornire risposte di interesse ai fini della valutazione. Tale prova può discendere da indagini commissionate dal titolare del marchio, ovvero, ove oggetto di contestazione, da una consulenza demoscopica d’ufficio, volta a assolvere al medesimo compito attraverso l’opera di un esperto del Giudice.
In altre parole, al titolare del marchio deve essere data la possibilità, con documentazione prodotta ex parte se ritenuta attendibile, ovvero con formazione della prova nel corso del giudizio, di dimostrare il proprio assunto, non escludendo, ove il settore merceologico di interesse si presti, indagini demoscopiche.
Tutto questo prezioso bagaglio di pronunce è stato fatto proprio, di recente, dalla Corte di Cassazione allorché si è trovata ad affrontare la controversia tra Barilla e La Molisana per il marchio “spaghetto quadrato” sfociata nella sentenza n. 53 del 4 gennaio 2022. In questa controversia il titolare del marchio affermava l’impossibilità di dichiararne la nullità in ragione del comma 2) dell’art. 13 del CPI, che, come più sopra visto, non consente l’annullamento della registrazione di un marchio che in virtù del suo utilizzo abbia acquisito una capacità distintiva sufficiente a renderlo riconoscibile sul mercato. La prova di questo acquisito secondary meaning si incardinava, secondo il titolare del marchio, nei costanti investimenti pubblicitari sul segno e nella loro consistenza economica.
La Cassazione nel procedere all’esame dell’impugnativa rispetto all’invocato principio del secondary meaning ben illustrava come secondo il senso letterale dell’espressione (“significato secondario”, inteso sia come successivo, sia come aggiunto) la fattispecie si verifichi tutte le volte in cui un segno, originariamente sprovvisto di capacità distintiva per genericità, mera descrittività o mancanza di originalità, si trovi ad acquistare, in seguito, tali capacità, in conseguenza del consolidarsi del suo uso sul mercato. In detta ipotesi, l’ordinamento recepisce il dato di fatto dell’acquisizione successiva e “secondaria” della “distintività”, attraverso un meccanismo di convalidazione del segno. L’esito del processo in parola comporta la possibilità per il titolare del marchio di agire, successivamente, in contraffazione.
Chiariva, a conferma di precedenti pronunce in tal senso, come l’onere di provare la nullità del titolo di proprietà industriale incomba su chi impugna il titolo. Ma una volta fornita tale prova, l’onere di dimostrarne la secondarizzazione grava sul titolare del marchio. Oggetto dell’onere della prova, però non è – nonostante il fenomeno suddetto dipenda dall’uso intenso della parola tanto da divenire distintiva per il pubblico dei consumatori – la sola esistenza di investimenti pubblicitari in sé, ma, invece, la rinomanza acquisita dal segno a seguito dell’attività pubblicitaria. Non il dato economico, insomma, ma ciò che il dato economico è stato capace di costruire nella mente del consumatore.
Un interessante tassello sull’oggetto specifico degli investimenti pubblicitari in materia di secondary meaning lo aveva fornito la Corte di Giustizie UE nel caso Adidas, anche qui passato fra più gradi decisionali. In quella circostanza la Corte aveva avuto modo di chiarire che l’investimento economico da parte del titolare del marchio deve essere sul simbolo registrato e non su un marchio in parte differente o su una parte del marchio stesso. Allo stesso modo la percezione da parte del consumatore del carattere individualizzante del marchio (in altre parole del rapporto univoco tra un determinato bene o servizio ed il marchio che lo rappresenta) non può essere riferita ad un marchio anche parzialmente diverso da quello registrato.
D’altra parte la b secondarizzazione del marchio è invocata al fine di mantenere in essere una registrazione e dunque appare logico che ciò che deve essere esaminato è il marchio così come registrato, e non una sua eventuale modificazione in uso o una sua costola. Ne consegue che anche le prove da fornire al giudicante da parte del titolare del marchio devono essere centrate tenendo conto di questo punto fermo.
Ma cosa accade se un marchio è rappresentato da un colore? Se un colore, di uso comune, viene utilizzato da parte di un soggetto produttore di un bene o servizio per contraddistinguere il proprio business? E’ astrattamente possibile l’acquisizione di secondary meaning e dunque di forza da parte di un marchio basato sul colore? L’esperienza di Milka ci dice di si. Il celebre colore lilla è in uso ormai dal 1965 in modo ininterrotto per i prodotti dell’azienda svizzera ed ha sicuramente acquisito, con il tempo e l’intensità di promozione e di diffusione commerciale, un alto indice di capacità distintiva.
La creazione di un marchio che abbia già, di per sé le caratteristiche di un segno forte, certamente agevola il titolare nella tutela; tuttavia, come visto, anche un marchio alla partenza dotato di scarsa capacità distintiva puo’ avere una seconda vita grazie ad un uso sapiente e a un giusto investimento.
https://www.altalex.com/documents/news/2022/04/12/tutela-marchio-principio-secondary-meaning